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Storia di fantascienza breve: Non smetteva di sorridere

Non smetteva di sorridere

di
Alessandro Ghebreigziabiher


Quella domenica d’agosto rimarrà per sempre nella mia mente. Credetemi, all’inizio non avrei voluto per niente trovarmi lì. Eppure andavo avanti e ogni passo che facevo cresceva la voglia di quello seguente, che non avevo ancora fatto.
C’era una strada, dritta, perfetta e liscia, era come camminare su una lama di una spada conficcata in un cuore, enorme e pulsante.
Ed era questo che vedevo all’orizzonte o, meglio, era quella città, dove la strada mi conduceva inesorabilmente. Non ero stanco e nell’aria sentivo un odore gradevole, come di un blando deodorante per interni. La temperatura era piacevole, c’era un’aria fresca, quasi come quella condizionata di un centro commerciale appena sorto in una desolata e calda periferia. Il cielo azzurro sembrava così pulito da far desiderare una nuvola, anche minuscola, così, solo per aver qualcosa da guardare.
Io cominciai solo in quel momento a considerare il mio abbigliamento.
Ero uscito di casa indossando quel che avevo trovato senza alcuna attenzione.
Portavo una limpida camicia bianca, talmente ordinata e stirata che sembrava dipinta sul mio corpo, come un candido tatuaggio. Avevo dei pantaloni neri, dritti e sinuosi, talmente sottili che sembravano inesistenti.
Tuttavia la cosa più particolare erano le scarpe: erano così affusolate e aerodinamiche che sembrava avessi due macchine da corsa ai piedi. E uguali a quest’ultime, come in ogni gara automobilistica che si rispetti, erano soffocate da sponsor e pubblicità d’ogni genere.
Eppure leggerissime.
Ma che tipo di persona ero il giorno che avevo deciso di acquistarle?
Man mano che mi avvicinavo alla meta, sentivo crescere dentro un senso di tranquillità, come una calma piatta, che mi avvolgeva dandomi sicurezza e calore.
Un altro fatto che mi colpì molto avvenne quando mi trovai a poche centinaia di metri dall’ingresso della città. Sentii una musica soave, dolce, estremamente melodiosa, che aumentava di volume ad ogni passo. Come una specie di colonna sonora che commentava puntualmente il mio andare. Era come essere guidati dalle sue note. Arrivai quindi ad un portone fatto di un cristallo limpido e trasparente alle cui spalle vidi un uomo che mi guardava sorridente.
Era giovane, alto e biondo, con occhi azzurri e bello.
Molto bello. Rimasi un attimo immobile e in quel mentre ci guardammo attentamente attraverso la porta, quasi studiandoci.
Aveva un viso perfetto e non smetteva mai di sorridere.
Stavo per dire qualcosa quando, ad un suo gesto, la porta si aprì.
“Benvenuto, avvicinati”, esclamò con voce calma. Non risposi e in silenzio varcai la soglia. L’uomo mi porse la mano senza abbandonare il suo smagliante sorriso ed io gliela strinsi, un po’ titubante. Mentre con una mano teneva la mia, mi mise l’altra sulla schiena, appena sotto il collo e in quella posizione m’invitò ad entrare nella città.
Mi disse che sarebbe stato la mia guida per tutto il tempo che avessi voluto trattenermi e, soprattutto, per quanto ce ne sarebbe stato bisogno.
Era un tipo molto gentile e calmo, estremamente calmo.
E non smetteva mai di sorridere.
Aggiunse che mi avrebbe portato a casa sua e che mi avrebbe presentato con gioia alla sua famiglia, moglie e due figli.
Io ero incredulo di fronte a tanta ospitalità e accoglienza da parte di uno sconosciuto e per questo provavo un notevole imbarazzo e anche, concedetemelo, una certa diffidenza.
Inoltre, pensavo tra me: “Ma questo che ne sa chi sono io? Potrei essere un maniaco, un pazzo, un ladro e che avrà da sorridere continuamente…”
Ogni volta sembrava quasi che mi leggesse nel pensiero e mi dimostrasse con lo sguardo la sua completa fiducia. Decisi di seguirlo ma di studiarlo con attenzione prima di lasciarmi andare.
Entrammo nel corso principale.
Fu impressionante: al posto della strada vi era un enorme letto scorrevole, una sorta di tapis-roulant d’asfalto.
La gente vi saliva e vi scendeva tranquillamente perché tanto la strada mobile andava ad una velocità minima. Su di essa vi erano poltrone, divani e letti di ogni tipo e, su questi, le persone leggevano, conversavano, giocavano a carte oppure, semplicemente, osservavano i due marciapiedi.
Questi ultimi erano molto particolari. Non vi erano negozi o centri commerciali ma schermi, tanti schermi, monitor, video di ogni forma e grandezza. Trasmettevano di tutto: documentari, film, video-clip, telegiornali, cartoni animati, soap opera. Ma c’erano anche web cam, internet e tutte le reti possibili. C’era tutto l’universo, lì, a vista d’occhio.
Chiesi al tipo come facessero a seguire tutto, tutte quelle immagini, quei colori e discorsi diversi, messaggi simili e opposti, suoni e musiche mescolate tra loro e tutto muovendosi lungo quella strada rotolante. Mi rispose semplicemente: “E’ una questione d'abitudine.”
Abitudine, abitudine, abitudine.
La parola echeggiò nella mia testa confusa.
Dissi all’uomo che avrei voluto sapere qualcosa di più della sua città, di come vivessero e così via ed egli mi rispose che la cosa migliore era il casco promozionale, come quelli per la realtà virtuale. Indossandolo era possibile assistere ad una specie di spot pubblicitario sullo stile di vita dei suoi concittadini. Ce n’era uno proprio vicino a noi e, su suo invito, lo misi in testa, enormemente curioso.
Sentii una musica e poi partì la trasmissione. Fu sorprendente. Sembrava una sorta di mondo perfetto.
La gente non lavorava, semplicemente perché non aveva fame e tantomeno sete. Non aveva bisogno di una casa poiché non provava freddo e il benché minimo caldo.
Non aveva bisogno di dormire in quanto non aveva sonno. Non c’erano ospedali e medici giacché nessuno provava dolore. Non esisteva polizia ed esercito dato che nessuno desiderava quel che aveva l’altro. Non c’era bisogno della benzina poiché tutti viaggiavano sulle strade rotolanti e le automobili non esistevano. Non esistevano i soldi perché non c’erano negozi.
E non c’erano negozi perché non c’era niente da vendere.
Perché tutto era lì.
Sugli schermi, su migliaia di schermi che popolavano ogni angolo della città.
Era una serena e tranquilla vita di contemplazione di tutto quello che fosse possibile vedere, che diventava quindi indiscutibilmente reale dal momento che fosse raggiungibile dal proprio sguardo.
Una sorta di vita eterna, indicava lo spot, attraverso le immagini che nuotavano negli occhi degli spettatori. E non c’era bisogno del telecomando perché la trasmissione in onda era sempre quella desiderata in quel preciso istante, con completa, piena e sicura soddisfazione.
Il tizio mi toccò il braccio, mi invitò a levare il casco e a scendere dalla strada mobile.
Davanti a noi c’era un ennesimo schermo che trasmetteva l’immagine di una porta. Sorprendentemente l’uomo l’aprii ed entrò all’interno invitandomi a seguirlo. Avanzai titubante e il tipo mi condusse in una stanza dove c’erano tre tv spente. Quindi mi disse: “Ti presento mia moglie, Giulia, e i miei due figli, Claudio e Lisa.”
“Scusa… dove sono?”
Eravamo soli nella camera, oltre a noi due e i monitor. L’altro si guardò intorno e, con un'espressione quasi mortificata, mi sussurrò: “Perdona, dimentico sempre di accenderli.”
In un attimo apparvero sui rispettivi schermi tre visi: la donna, affascinante e sorridente, così come i due ragazzi, altrettanto incantevoli e pieni di gioia. Ero un po' confuso, non capivo, gli chiesi se fossero da qualche parte e stessero trasmettendo la loro immagine tramite una web cam o altro ma, in quel momento, il padrone di casa smise per la prima volta di sorridere e mi disse: “Tu non capisci. Sono qui davanti a te. Sono loro la mia famiglia. Sono perfetti. Non gridano, fanno quello che dico, dicono quello che voglio, quando lo voglio. Prendi mia moglie: è sempre allegra, mi ascolta sempre senza interrompermi, lì, ferma, giorno e notte.
Non mi tradirà mai, perché non ne ha bisogno. Non vuole regali, vestiti, andare fuori, poiché non ne ha bisogno. Lei ha tutto ciò che desidero per lei ed è questo il massimo dell'amore di un uomo, non credi? Posso fidarmi di lei ciecamente e, se esco, sono sicuro che sarà lì ad aspettarmi, per l'eternità. E non smette mai di sorridere, qualunque cosa succeda, qualunque cosa dica, qualunque cosa io faccia.
“E i bambini. Guarda come sono buoni ed educati. Non ho dovuto educarli, crescono da soli e diventano ciò che io ho progettato per loro, da genitore assolutamente soddisfatto di esserlo. Non vogliono giocattoli perché sono già contenti. Guardali, li vedi? Non esigono che racconti loro delle favole per farli addormentare in quanto dormono all’istante quando lo desidero. E non devo preoccuparmi per loro, per il loro futuro, dato che non posso avere il benché minimo dubbio che andrà tutto bene, perché questo è ciò che ho deciso per loro, da buon padre. E’… perfetto. Sì, perfetto”
In quell'istante mi sentii mancare, le gambe non mi reggevano, vidi la stanza capovolgersi, mentre la voce dell’uomo echeggiava nella mia testa.
“E’ perfetto, perfetto, perfetto…”
Sulle immagini che riempirono la mia memoria, nelle ore seguenti, in fede mia non ho tutt'ora la più pallida idea di quanto avessero di reale e quanto di onirico. Un'allucinazione non credo. Troppo strutturata, eccessivamente precisa, smisuratamente logica, in ultima analisi. Sono uno psicologo, fino a prova contraria, e credo di avere una certa idea della materia che tratto.
Quando riaprii gli occhi ero in una stanza di quella che sembrava una clinica. La dottoressa, presumo, mi rassicurò che il mancamento era stato sicuramente causato dalla forte aria condizionata all'interno della sala proiezioni.
Fuori faceva molto caldo ed io, inoltre, dovevo aver avuto un attacco d'ansia. Ne soffro da anni e lo avevo anche scritto nel modulo di autorizzazione. L'avevo detto al responsabile che il mio casco promozionale fosse troppo stretto ma non mi hanno nemmeno ascoltato. Erano troppo presi dalla loro grande invenzione, il T.P.T., The Perfect Town. La città perfetta, l'ultimo ritrovato in fatto di pubblicità.
Tutto per reclamizzare un nuovissimo tipo di monitor per pc, ad elevata risoluzione e di nuovissima generazione. Il modello montato all'interno del casco era difatti un prototipo di quest'ultimo. Non posso negare che ne sono rimasto abbagliato. Il personaggio guida, per quanto ci avessero premesso che qualsiasi cosa avremmo visto era stato interamente prodotto al computer, sapeva estremamente di umano quanto di inquietante, del resto, almeno per me.
“Come si sente?” chiese la donna, mentre lentamente mi sedevo sul lettino. Senza guardarla, iniziai ad eruttare ciò che ricordavo dal mio svenimento in poi, con l'estremo bisogno di vederlo al di fuori di me, valutarlo con occhi aperti, se non altro fissandoli in quelli di chi mi avesse ascoltato.
“Era notte”, iniziai a raccontare. “Io e tutta la gente di quella bizzarra città eravamo con la faccia rivolta in alto, al cielo. Quest’ultimo era come un enorme monitor, senza limiti. Partì una musica, una sorta di sigla e apparvero i titoli di testa: ‘E non smetteva mai di sorridere’, scritto, diretto e vissuto in questo preciso istante da…
“Una luce proveniente da chissà dove mi illuminò. Tutti mi guardarono, sempre sorridenti ma con una briciola di preoccupazione negli occhi. E nel buio di quell'immenso schermo il film iniziò: nella prima scena c’ero io, in primo piano. Avevo uno sguardo maligno, con un ghigno da discolo dispettoso. L’inquadratura si allargò e tutti potemmo scorgere tra le mie mani una mazza ferrata, pesante e poderosa. I cittadini cominciarono ad allarmarsi e ad allontanarsi da me, mentre io non potevo levare gli occhi dalla scena proiettata nel cielo in quel momento. Il mio personaggio cominciò a spaccare, fracassare, polverizzare tutti gli schermi, monitor, tv pubbliche e private che incontrasse. E con essi tutte le immagini si perdevano in pezzi, come statuette di porcellana in frantumi. C’erano presentatori di giochi a premi senza testa, venditori di televendite senza occhi, attrici porno senza pelle, attori di fiction senza bocca, calciatori senza gambe, politici senza mani, tutto in briciole. E ho visto la gente intorno a me smettere di sorridere. Li ho visti piangere, li ho visti ridere e ho visto persone fare le due cose contemporaneamente. Ho visto persone gridare e scappare, cantare e litigare, sognare e andare al gabinetto, saltare e recitare, vomitare e arrampicarsi, accarezzare e tossire, nascere e uccidere, tossire e mangiare, applaudire e starnutire, scrivere e ricordare…”
“Signore, si sente bene?” chiese la dottoressa, con voce piuttosto allarmata.
Non mi ero reso conto delle lacrime che scendevano indisturbate rigandomi le guance. Di una cosa sola ero certo: stavo sorridendo. No, ad essere preciso, stavo ridendo. Erano mesi che non ridevo così.
Avevo molti dubbi prima di accettare di offrirmi per quell'esperimento, quella mattina. Eppure, a quanto pare, allucinazione o meno, a qualcosa era servito. Mi avvicinai alla donna col camice e la baciai, senza darle nemmeno il tempo di pensare a ciò che stava succedendo. Niente di aggressivo, credetemi. Un bacio lieve, morbido e breve ma intenso. Nulla di invadente più di quel che fosse. E poi, un attimo dopo, ero pronto ad accettare ogni punizione, dal classico ceffone fino a qualsiasi pena la mia vittima scegliesse. Tuttavia, subito dopo l’abbraccio di labbra, si ritrasse ma inaspettatamente rispose al mio sorriso, in quanto non avevo mai smesso di farlo.
“Mi dispiace”, le dissi mentre uscivo, “ma non sarò mai vostro cliente.”

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