I due scrittori
di
Alessandro Ghebreigziabiher
Attilio e Rashid erano due ragazzi. Avevano tredici anni e ognuno di loro amava scrivere. Si erano conosciuti a Milano l’anno passato, entrambi premiati per un racconto in occasione di un concorso letterario. Il tema di quest’ultimo era l’intercultura e i due adolescenti avevano gareggiato in due categorie diverse. Attilio come autore italiano e Rashid come straniero, divisi da un aggettivo. Fortunatamente erano inclusi nella stessa macro categoria: giovani.
La manifestazione era durata un paio di giorni, durante i quali i due avevano trovato il tempo di mettere le basi per una spontanea e sincera amicizia a distanza. Difatti Rashid, vivendo in India, e avendo ottenuto la possibilità di recarsi in Italia – in un viaggio spesato di tutto – unicamente grazie al premio in questione, al termine dell’evento era dovuto tornare a Bombay.
Ciò nonostante la cosa non impedì ai due ragazzi di scambiarsi tutti gli indirizzi possibili, con la promessa di scriversi con continuità. L’ultima ora che avevano passato insieme, in attesa dei rispettivi aerei – Attilio era di Roma – si erano fatti la reciproca fondamentale domanda: “Perché scrivi?”
Attilio aveva risposto per primo ed era stato molto sincero e aperto: “Scrivo perché mi fa stare bene, perché quando ho finito e leggo ciò che ho scritto mi sento meglio, più sereno, più leggero e, qualche volta, pure più maturo. E tu? Perché scrivi, tu?”
Rashid non era riuscito a dire la sua poiché il caso aveva voluto che la chiamata per il suo aereo arrivasse proprio in quel momento.
Nei mesi seguenti Attilio dichiarava sempre nelle sue lettere, come minimo nel post scriptum, di essere ancora in attesa della fatidica risposta, tuttavia, Rashid sembrava sistematicamente ignorare la domanda, parlando ogni volta d’altro. Nello stesso tempo le loro rispettive vite proseguivano il normale corso e un anno era passato.
Rashid era un ragazzo sveglio, veloce, magro e scattante. Per tutti i grandi, sempre e comunque, era noto come il giovane Rashid.
"Pensa a correre, ragazzo. Tu pensa a correre", lo riprendeva suo padre Amir, quando veniva interrotto dal figlio durante le sue interminabili discussioni con il fratello Kathib.
"Ma papà, io…"
"Non hai sentito tuo padre - immancabile e frustrante - giovane Rashid? Perché sprechi il tuo prezioso fiato? Corri, continua a correre."
Il genitore e lo zio avevano molto a cuore l'allenamento quotidiano del giovane… ops, di Rashid. Il ragazzo era in grado di compiere i cento metri già sotto gli undici secondi, il che lo poneva in piena autostrada verso le olimpiadi, l'affrancamento dalla povertà, gli sponsor, le televendite, i film, magari anche un oscar.
Eh, sì, poiché tutto inevitabilmente andava a finire sul cinematografico, l'unico vero passatempo e distrazione della famiglia. Il resto del tempo erano tutte e sole preoccupazioni per il lavoro che non c'era, per le continue alluvioni, per il favorevole partito da scovare per la figlia ormai undicenne e per l'epilessia della madre.
Rashid aveva molto a cuore tali questioni, soprattutto l'ultima e si sentiva corpo responsabile insieme ai due adulti di casa. Tuttavia, l'unica volta che era riuscito ad esprimere tutto d'un fiato la propria volontà di dare il proprio contributo, il padre lo aveva guardato fisso negli occhi e gli aveva detto con voce grave: "Giovane Rashid, vuoi fare qualcosa per tua madre? Vuoi fare qualcosa per noi tutti? Corri. Scendi sotto i dieci, scendi sotto i dieci. La vita ti ha dato un dono, quella è la tua responsabilità."
Ora c'era solo un piccolo problema. Al giovane Rashid non piaceva proprio correre. Ovvero lo faceva volentieri per un buon motivo. Correva come un fulmine fino in paese e ritorno per comprare le medicine per la madre, rubava il miele alle api con i compagni ed era l'unico a non essere mai stato punto, una volta aveva marinato la scuola e aveva avvistato i genitori col calesse che andavano a prenderlo perché avevano organizzato un ennesimo incontro per il possibile accordo matrimoniale della sorella. Occorre che vi dica chi arrivò prima di fronte all'istituto, giusto in tempo per la consueta campanella di fine lezioni?
Certo diventare un campione della velocità, famoso e soprattutto ricco, capace quindi di risolvere gran parte dei problemi familiari, era una buona ragione. Ma il fatto era che lui, tale obiettivo, non riusciva a visualizzarlo davanti a sé durante gli allenamenti. Non aveva la carota, in poche parole. C'era il bastone, il padre e lo zio, ma non la carota.
D'altra parte, quando ascoltava i suoi due severi coach confrontarsi sul come affrontare le difficoltà familiari, aveva sì qualcosa da dire. Era gonfio di parole, discorsi, fiumi di considerazioni, montagne di affermazioni, un mare di storie da narrare. L'energia che non aveva scopo nella danza delle gambe una di seguito all'altra trovava nell’arte del racconto il suo momento, la piena soddisfazione, perfino a prescindere dall'obiettivo. E poi il ragazzo si sentiva pure inorgoglito dal premio vinto, con tanto di medaglia d’oro, per quanto solo bagnata nel prezioso metallo.
Nondimeno la scena era sempre la stessa: i due allenatori confabulavano con l'orologio in mano pronti ad arrestarlo al passaggio di Rashid ma quest’ultimo, quando si avvicinava a loro, rallentava per udirne le voci, per coglierne i frutti e magari intervenire con tutto il proprio pensare in ebollizione.
Una sera come tante Amir e Kathib erano presi dalla conversazione un po' più del solito: "Fratello, lasciamo perdere. E' indubbio che la famiglia di Assur non sia alla nostra portata. L'hai visto come ci guarda quando lo incontriamo?"
"Amir, come vuoi che ci guardi? E' miope…"
"Ma no, ci guarda dall'alto in basso."
"Fratello, ti ricordo che quell'uomo è alto quasi due metri e noi siamo due nani."
"Eh, no! E' lui che è anormale! Ma si è mai visto un indiano così alto?"
"E pensa che anche il figlio diventerà così. Pensa a mia nipote: nessuno potrà mai pensare di darle fastidio."
"Ti ho già detto di non perdere tempo a fare progetti. Assur è un uomo istruito, mica un rozzo ignorante come noi."
"Parla per te, fratello. Io so sommare e sottrarre, ti ricordo."
"Sì, due pecore più due pecore meno un maiale."
"Non offendermi così. Che c'è di male se voglio il meglio per tua figlia?"
"E cosa credi? Che io non voglia lo stesso? E' che non voglio illudermi. Dovremmo sembrare diversi da quello che siamo."
"Ci sono", gridò lo zio di Rashid mollando un involontario ceffone al padre del ragazzo.
"A momenti mi rompi un dente…"
"Al dente ci pensiamo dopo. Gli scriviamo una bella lettera."
"Cosa?"
"Ma sì, gli scriviamo una lettera. Una bella lettera. Così ci mostriamo a lui per quello che abbiamo dentro: due persone per bene. Non saremo ricchi ma siamo persone per bene."
"Bell'idea. Così, oltre che rozzi e morti di fame, gli facciamo capire anche che ignoranti che siamo."
"Ti ho già detto parla per te?"
"Kathib, ti ricordo che l'ultima volta che hai preso una penna in mano è stato per firmare come testimone al mio matrimonio."
"E i conti che faccio per te?"
"Per quelli usi la matita, scemo. E poi sono numeri. Non vuoi mica scrivergli qualche addizione delle tue? Tre pecore meno tre maiali."
"Insomma, Amir, un po' di ottimismo! Ho visto tutta la serie di Rocky almeno cinque volte. Qualche parola la saprò buttare giù, no?"
"Ecco, bravo. Scrivigli «Adriana! Ce l'ho fatta, Adriana!». Solo che non credo c'entri molto con la nostra causa."
"Dì quello che ti pare. Io la lettera la scrivo, stasera stessa. Addio!"
E si allontanò definitivamente offeso.
"Kathib, torna subito qui”, gridò Amir all'inseguimento del fratello, dimenticandosi del figlio. Ti proibisco ti spedire qualsiasi cosa!"
E il giovane Rashid? A mozzichi e bocconi, tra un passaggio e l'altro, aveva ascoltato quasi tutto.
E aveva trovato la propria occasione. A differenza dello zio qualche frase fatta apposta per la carta ce l'aveva nel cuore, in quanto un paio di libri era riuscito a leggerli. Due romanzi d'avventura, I tre moschettieri e Ventimila leghe sotto i mari, definibili un po' ingenui al giorno d'oggi, ma erano bastati a suggerirgli un ventaglio infinito di possibili coreografie nascoste nel mondo delle lettere stampate.
E così tre lettere furono scritte quella notte.
Quella di Rashid, giustappunto, la lettera di una vita nascosta in due piedi svelti come il vento ma indomiti innanzi alla proverbiale cieca condanna a muoversi comunque, per capriccio della natura, dell'aria che corre.
Quella di Kathib, che per una volta permise ad un ammasso di muscoli, nervi e sogni di infondere in un povero il coraggio di cantare le proprie lodi per la ricchezza di una nipote.
Quella, infine, del suo preoccupato fratello, il quale, senza indugio - non potendo impedire lo scrivere dell'altro - si gettò nella stessa direzione, nel tentativo di scusarsi con il gigantesco e facoltoso vicino per l'altra inopportuna missiva.
Il mattino arrivò come sempre e nella casa di Assur qualcosa stava per cambiare.
L'indiano più alto di Bombay aprì la porta di casa e sull'uscio trovò una lettera, una sola.
I conti non tornavano. Una lettera più una lettera più una lettera, meno due… avrebbe detto Amir. Una sola, insomma.
L'uomo la aprì e la lesse, disegnando sul proprio viso un inevitabile sorriso.
Quale delle tre era giunta a destinazione?
La lettera sopravvissuta avrebbe potuto essere quella del giovane Rashid, capace finalmente di aiutare la famiglia senza correre. Chiaramente il sorriso di Assur significava contentezza e apprezzamento per le belle parole. Belle parole che avrebbero potuto essere però anche di Kathib. Potenza di Stallone, chissà. L'altro forzuto è diventato governatore della California.
Oppure avrebbe potuto essere un sorriso denso di ilarità verso la prevedibile presenza di imprecisioni ortografiche nell’errata corrige spedita da Amir. O, magari, dietro a quel sorridere avrebbe potuto nascondersi una sorta di compassione verso una qualunque delle tre lettere, comunque incapaci di compensare un tale divario sociale ed economico.
E quante altre strade ancora vi sono dietro ad un sorriso? L’unica cosa che contò fu che l’uomo fu felice di legare la sua famiglia alla loro e il matrimonio che fu celebrato fu uno dei più gioiosi del loro tempo, anche per un altro motivo. Nessuno dei tre seppe mai quale lettera era stata letta da Assur e fu la cosa migliore, poiché ciascuno di loro si sentì orgoglioso di aver contribuito alla loro comune felicità, senza alcun bisogno di vincere le olimpiadi.
Leggi altre storie di intercultura.
Vieni ad ascoltarmi a teatro Sabato 30 Aprile 2016 a Roma.
Ascolta la mia canzone La libertà
Compra il mio ultimo libro, La truffa dei migranti, Tempesta Editore
Iscriviti alla Newsletter
Commenti
Posta un commento