L'importanza del bicchiere
di
Alessandro Ghebreigziabiher
A casa di Teresa.
Si discuteva.
Animosamente si discuteva, anche quel giorno.
Con la tavola apparecchiata nel mezzo e tutta intorno la vita che si nutre.
Dei pieni di questo mondo.
“Va tutto a rotoli”, si lamentava il padre. “E’ come se ogni giorno potesse dimostrarti che la discesa non è ancora finita, che esiste un nuovo gradino verso il basso…”
“Che esagerazione,” si smarcava sua madre. “Vedi sempre tutto nero, tu.”
“E’ la realtà, amore.”
“Le cose possono migliorare, vedrai.”
E la solita schermaglia si dipanava con snervante monotonia.
Io vedo.
Io vedrò.
Tu non vedi quel che vedo e tu non sei in grado.
Di immaginare.
Quel che spero.
“Mi avete rotto le palle”, esclamava suo fratello nei suoi giorni migliori, allorché il sedante monitor a ben cinque pollici e mezzo del cellulare ne moderasse i toni.
Quindi si alzava e creava vuoto.
Lungo la circonferenza privilegiata dove ci si nutre.
E ci si permette pure di sputare.
Sui pieni di questo mondo.
“E’ sempre più maleducato”, si lamentava papà. “E’ come se ogni giorno potesse dimostrarti che domani farà di peggio, che esiste un nuovo modo per farti vergognare di lui…”
“Che esagerazione”, dissentiva mamma. “Non riesci a vedere il buono che ha dentro, tu.”
“E’ la realtà, cara.”
“Può migliorare, vedrai.”
E l’abituale litania andava in scena con avvilente apatia.
Io spero.
Io no.
Tu non hai fede in quel che so e tu non vedi quel che ho sempre saputo.
Del vuoto.
Del pieno.
Che fanno il tutto.
Che noi altri riusciamo a vedere.
O sperare.
“Teresa?”, fece un giorno la madre, accorgendosi finalmente della sua presenza.
Assenza.
“Cosa guardi?” domandò suo padre.
Il fratello spostò miracolosamente il capo dall’ipnotizzante app.
E la ragazzina sorrise.
Senza smettere di fissare.
Tra il mezzo pieno e il mezzo vuoto.
Il bicchiere.
E tutti i vantaggi di averne uno.
Da riempire.
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