Siamo tutto quello che c’è fuori
di
Alessandro Ghebreigziabiher
In pensione.
Alla fine ci sono arrivata.
Non alla pensione, cioè anche quella, ma mi riferisco ad altro.
Al resto.
Tutto il resto.
Ricordavo, l’altro giorno, quando mi sono imbattuta in quel collega che ancora adesso non rammento come si chiamava.
Non ho mai avuto particolare dimestichezza con i nomi e le facce.
Ricordo solo le voci.
Ma di quel minuto adolescente in prima media, con la testa invasa da ricci a dir poco scostumati e gli occhiali eccessivamente grandi, dalla sgargiante montatura rossa tenuta insieme dallo scotch, non ho più dimenticato alcunché.
Corrado, si chiamava Corrado ed era stato solo un anno nella mia classe.
O, forse, ero stata io.
A trascorrere non più di un anno nella sua vita.
Non ho idea di dove sia finito dopo, ma non appena il mio collega mi ha chiesto dei vecchi tempi andati ho subito ripensato a lui e a ciò che scrisse nel tema di quel giorno.
Racconta chi sei, la traccia. Una via per agevolare la conoscenza reciproca tra gli alunni, niente di più.
E soprattutto molto di meno di quel che Corrado mostrò.
Io vivo fuori, così iniziava, e poi di seguito.
Vivo fuori di me, quindi io sono quel che è fuori. Tutto quel che si trovi all’esterno, oltre la mia pelle, al di là del mio corpo, non il contrario.
Sono tutto, sono la ragnatela nell’angolo del soffitto, sono il ragno, perfino la preda, ma da me poi fanno pace e prendono a saltare sulla rete come fanno i bambini nei parchi e magari cascano, ma non si fanno mai male del tutto.
Sono la porta della camera, che poi camera non è perché dormo sul divano letto nel soggiorno con cucina a vista, ma quando la apro esco fuori e sono ancora io.
Perché io vivo fuori, sono quel fuori, devo esserlo.
Sono tutte le persone che incontro dal momento che oltrepasso la soglia, sono perfino il vecchietto che si lamenta sempre della ragazzina che intasa di pubblicità le cassette della posta. Sono le pubblicità, sono la carta e soprattutto i colori che la rendono allegra e convincente. E allora sono più che contento, perché se sei i colori, ciascuno di essi, puoi essere davvero tutto, nessuno può impedirtelo, nessuno può afferrarti se tu non lo vuoi, nessuno può farti del male, se tu non glielo permetti.
Se tu, al momento giusto, cambi colore, confondendoti con il resto.
Che poi è tutto.
Sono tutto quel che c’è fuori, ma ci pensate?
Sono anche te che leggi e te che leggerai poco, nella tua vita, e non sai cosa ti perdi.
Sono terra, aria e pane caldo.
Sono le cose normali che non hanno alcun bisogno di invocare miracoli ed effetti speciali.
Perché essi sono un miracolo speciale dalla nascita, è solo che non se ne vantano.
Non so voi, scrisse infine. Ma ognuno di noi può scegliere cosa essere e io un giorno ho capito che dentro non c’era abbastanza spazio per tutto quello che provo e penso.
Così sono uscito, sono andato fuori, ho dovuto farlo, lo ammetto.
Quando ho compreso che quel fuori era il meglio che potessi avere allora l’ho scelto, amato.
E non sono più tornato.
Dentro.
In seguito ho saputo dal preside che quel ragazzino era stato tolto ai genitori perché entrambi lo maltrattavano, per usare un eufemismo, e per questo era stato affidato ai servizi sociali in un’altra città.
Fuori dalla nostra, si potrebbe dire.
Come dicevo, alla fine ci sono arrivata anche io.
Non alla pensione, intendo, ovvero pure quella, ma sto parlando di altro.
Del resto.
Quel che è stato la vita intorno a me fino a oggi.
Vicina o lontana.
E che solo ora capisco.
Che è sempre stato.
Ciò che sono…
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