Passeggiando con l’ombra
di
Alessandro Ghebreigziabiher
La famiglia dei segreti.
Per noi, tranne tutti, il che fa un po’ ridere, lo so.
Mio padre era disoccupato da un anno, ma non si poteva raccontare in giro, malgrado in giro non lo vedesse più nessuno e il quartiere è grande, ma la gente mormora lo stesso.
Soprattutto se tra quella stessa gente vi siano molti altri imboscati, nonché privati della busta paga, ma che non si dica.
In giro.
Mia madre, anch’ella scalzata dal vecchio lavoro - un mestiere di concetto, come si diceva una volta – dopo una sequela interminabile di rifiuti si era messa a pulire le scale del palazzo di fronte, altro segreto da custodire con estrema cura.
Nel palazzo di casa, perlomeno.
Tuttavia, come già detto, il quartiere è vasto, ma la gente mormora, ecc.
Poi c’era mio fratello che aveva fatto outing, che poi lui sostiene che si dovrebbe dire coming out, sulla sua attrazione per il cosiddetto sesso forte.
Sebbene siamo nell’iper tecnologico terzo millennio, ditemi voi se non c’è avvenimento nascosto con più cura dentro i confini dell’appartamento.
Ma laddove il suddetto annunci la nuova consapevolezza su tutti i social a disposizione, capirete quanto diventi ridicolo parlare ancora di segreto.
E poi c’ero io, fresca laureata, fresca disoccupata, fresca della doccia e pronta a tuffarsi nel fresco della sera per iniziare il mio primo giorno di lavoro come baby sitter.
Lavoro segreto, naturalmente, per genitoriale sentenza: se con tutti i soldi che abbiamo speso per farti laureare il solo impiego che hai trovato è questo, è meglio non raccontarlo.
In giro.
Ma sapete una cosa?
Il mio segreto aveva qualche possibilità di rimanere tale, perché non esordivo con un caso da manuale, ecco.
“Vedi, Caterina”, mi aveva spiegato la donna nel nostro primo e unico appuntamento, “mio figlio è un ragazzino un po’ particolare.”
Mi aveva detto anche altro, ovviamente, ma ciò che mi aveva colpito di più fu la cosa dell’ombra.
Dario aveva dieci anni, aveva smesso di andare a scuola, rimanendo tutto il giorno chiuso nella sua stanza, da dove ne usciva solo al tramonto.
Per tale ragione era così che preferiva essere chiamato, definito, considerato.
Un’ombra.
Mi ero permessa di chiedere se avevano pensato di farlo vedere da qualcuno, che so, uno psicologo o qualcosa di simile.
Sì, ci avevano pensato e avevano già provveduto.
Ma poi la giornata finiva e la luce se ne andava, così come lei e il marito. La donna serviva ai tavoli in un ristorante e il compagno faceva il custode notturno in un garage.
“Quindi dovrei preparargli la cena e stare con lui fino al suo ritorno, giusto?” avevo chiesto.
“Sì, certo, la cena”, aveva confermato la madre, “ma… ecco, dovresti portarlo fuori. Quando arriva la sera ha sempre voglia di farsi una passeggiata.”
In giro.
Così, arrivai puntuale alla casa di Dario. La mamma era già pronta per uscire, mi salutò con un inaspettato abbraccio e mi lasciò con lui.
L’ombra.
Quest’ultima, che non avevo ancora incontrato, mi aspettava nella sua stanza.
“Dario?” esclamai avvicinandomi, muovendomi cauta lungo il corridoio.
I battiti del mio cuore accelerarono repentinamente. Capirete, esce solo di sera, si fa chiamare l’ombra e mi aspetta nella tana pronto a divorarmi.
Un film horror già scritto, insomma.
Poi sono giunta sulla soglia, ho guardato quel bambino e non ho potuto fare a meno di dividermi tra un inevitabile sorriso e un travolgente pianto. Anche se il secondo rimase celato nel mio petto, visto che siamo in tema.
Eccoci, due ombre nell’ombra, già, dove talvolta scelgono di rifugiarsi le esistenze obbligate da sguardi e parole private di ogni briciola di umanità.
Quel giorno ho fatto la mia prima passeggiata con Dario.
E ogni volta è durata un pochino di più.
Ecco, è così che cresciamo, da queste parti.
Perché sebbene la notte sia perfetta per noi, vite segrete, visto che il buio è tale per tutti, ombre o meno, facciamo ogni volta un pezzo di strada in più.
In giro.
Poi col tempo, quando meno ce l’aspettiamo, siamo stati a camminare così tanto che il sole sorge.
E non c’è più bisogno.
Di segreti.
La famiglia dei segreti.
Per noi, tranne tutti, il che fa un po’ ridere, lo so.
Mio padre era disoccupato da un anno, ma non si poteva raccontare in giro, malgrado in giro non lo vedesse più nessuno e il quartiere è grande, ma la gente mormora lo stesso.
Soprattutto se tra quella stessa gente vi siano molti altri imboscati, nonché privati della busta paga, ma che non si dica.
In giro.
Mia madre, anch’ella scalzata dal vecchio lavoro - un mestiere di concetto, come si diceva una volta – dopo una sequela interminabile di rifiuti si era messa a pulire le scale del palazzo di fronte, altro segreto da custodire con estrema cura.
Nel palazzo di casa, perlomeno.
Tuttavia, come già detto, il quartiere è vasto, ma la gente mormora, ecc.
Poi c’era mio fratello che aveva fatto outing, che poi lui sostiene che si dovrebbe dire coming out, sulla sua attrazione per il cosiddetto sesso forte.
Sebbene siamo nell’iper tecnologico terzo millennio, ditemi voi se non c’è avvenimento nascosto con più cura dentro i confini dell’appartamento.
Ma laddove il suddetto annunci la nuova consapevolezza su tutti i social a disposizione, capirete quanto diventi ridicolo parlare ancora di segreto.
E poi c’ero io, fresca laureata, fresca disoccupata, fresca della doccia e pronta a tuffarsi nel fresco della sera per iniziare il mio primo giorno di lavoro come baby sitter.
Lavoro segreto, naturalmente, per genitoriale sentenza: se con tutti i soldi che abbiamo speso per farti laureare il solo impiego che hai trovato è questo, è meglio non raccontarlo.
In giro.
Ma sapete una cosa?
Il mio segreto aveva qualche possibilità di rimanere tale, perché non esordivo con un caso da manuale, ecco.
“Vedi, Caterina”, mi aveva spiegato la donna nel nostro primo e unico appuntamento, “mio figlio è un ragazzino un po’ particolare.”
Mi aveva detto anche altro, ovviamente, ma ciò che mi aveva colpito di più fu la cosa dell’ombra.
Dario aveva dieci anni, aveva smesso di andare a scuola, rimanendo tutto il giorno chiuso nella sua stanza, da dove ne usciva solo al tramonto.
Per tale ragione era così che preferiva essere chiamato, definito, considerato.
Un’ombra.
Mi ero permessa di chiedere se avevano pensato di farlo vedere da qualcuno, che so, uno psicologo o qualcosa di simile.
Sì, ci avevano pensato e avevano già provveduto.
Ma poi la giornata finiva e la luce se ne andava, così come lei e il marito. La donna serviva ai tavoli in un ristorante e il compagno faceva il custode notturno in un garage.
“Quindi dovrei preparargli la cena e stare con lui fino al suo ritorno, giusto?” avevo chiesto.
“Sì, certo, la cena”, aveva confermato la madre, “ma… ecco, dovresti portarlo fuori. Quando arriva la sera ha sempre voglia di farsi una passeggiata.”
In giro.
Così, arrivai puntuale alla casa di Dario. La mamma era già pronta per uscire, mi salutò con un inaspettato abbraccio e mi lasciò con lui.
L’ombra.
Quest’ultima, che non avevo ancora incontrato, mi aspettava nella sua stanza.
“Dario?” esclamai avvicinandomi, muovendomi cauta lungo il corridoio.
I battiti del mio cuore accelerarono repentinamente. Capirete, esce solo di sera, si fa chiamare l’ombra e mi aspetta nella tana pronto a divorarmi.
Un film horror già scritto, insomma.
Poi sono giunta sulla soglia, ho guardato quel bambino e non ho potuto fare a meno di dividermi tra un inevitabile sorriso e un travolgente pianto. Anche se il secondo rimase celato nel mio petto, visto che siamo in tema.
Eccoci, due ombre nell’ombra, già, dove talvolta scelgono di rifugiarsi le esistenze obbligate da sguardi e parole private di ogni briciola di umanità.
Quel giorno ho fatto la mia prima passeggiata con Dario.
E ogni volta è durata un pochino di più.
Ecco, è così che cresciamo, da queste parti.
Perché sebbene la notte sia perfetta per noi, vite segrete, visto che il buio è tale per tutti, ombre o meno, facciamo ogni volta un pezzo di strada in più.
In giro.
Poi col tempo, quando meno ce l’aspettiamo, siamo stati a camminare così tanto che il sole sorge.
E non c’è più bisogno.
Di segreti.
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