#La.
#Faccio.
#Finita.
Eva digitò le tre parole ciascuna preceduta da un hashtag e si apprestò a chiudere.
Potremmo aggiungere il sipario, per darci un tono teatrale, giustappunto, ma presumo sia più onesto dirla tutta per ciò che è.
Eva era pronta a chiudere ogni cosa e gli ultimi tre insiemi di lettere che lasciava alle spalle rappresentavano un commiato perfetto, a suo dire. Anzi, scrivere.
Ma non aveva idea di quanto tutta la scena lo fosse, perfetta.
“Ci conosciamo?”
Un messaggio di altre due parole apparve sul suo monitor. Ciò nonostante, era il nome del mittente a lasciarla perplessa.
“Non credo”, rispose Eva digitando a sua volta, e il dialogo prese vita.
“E allora perché mi hai taggato?”
“Non ti ho taggato.”
“Sì che l’hai fatto.”
“Ti sbagli, ci dev’essere stato un errore.”
“No, nessun errore, hai taggato proprio me.”
“Aspetta… tu vorresti dirmi che ti chiami La?”
“Sì, ovvero è il diminutivo di Laura, tutti mi chiamano La, ma nessuno per il motivo per il quale mi ci sento.”
“E quale sarebbe?”
“È facile: io sono La, come la nota.”
“Il La?”
“No, la La.”
“Non ti seguo…”
“È normale che tu non mi segua, perché è talmente vero ciò che penso che nessuno lo ritiene plausibile.”
“Spiega.”
“Si chiamano note, giusto?”
“Sì.”
“E nota è una parola femminile, okay? Sono le note, giusto?”
“Esatto.”
“E al plurale è sempre femminile, vero?”
“Quindi?”
“Quindi perché allora diciamo il Do e il Sol, il Re e il Mi? Almeno il Fa e il La dovrebbero essere nostre: la Fa e la La.”
“Che scemenza.”
“Non dico tutte le note, ma almeno quelle due. In fondo servono per creare la musica, non il musica.”
“Tu sei scema, ma simpatica.”
“Grazie.”
“Scusa, Eva, ma se non mi hai taggato cosa stavi scrivendo?”
“Ci conosciamo?” scrisse in quel momento qualcun altro.
“Non penso, ma scusa, sono già in chat con una…”
“E allora se sei in chat con una perché mi tagghi?”
“Non ti ho taggato, cosa dici?”
“Sì che l’hai fatto, Eva.”
Eva ripensò a cosa aveva scritto la prima volta, ovvero la faccio finita, con i relativi hastag.
“Un attimo… quindi tu vorresti dirmi che sei Faccio?”
“Sì.”
“Ti chiami Faccio?”
“Non mi chiamo davvero Faccio, è un nickname, sveglia, io sono Francesco.”
“Be’, è strano.”
“No, è logico.”
“Perché?”
“Perché la vita per me è fare. Penso, quindi sono, dice il motto, ma secondo me il pensiero va bene per gli anziani. Io ho sedici anni.”
“Anche io.”
“E allora puoi capirmi. Ci sono così tante cose da fare oggi, che non si può restare fermi. Non si può restare a pensarle o solo a guardare gli altri che le fanno. Chi può fare, deve fare, questo è il mio motto. E io faccio.”
“E cosa faresti?”
“Tutto quello che mi fa stare bene.”
“Ci conosciamo?” scrisse il terzo a entrare in scena.
“Non ci conosciamo…” rispose Eva. “ma scommetto che ti ho taggato, giusto?”
“Sì.”
“E tu ti chiami Finita, vero?”
“Brava, ma perché mi hai taggato?”
“Che razza di nome è Finita? So che è un nickname, ma perché hai scelto questo?”
“Non è un nickname.”
“Stai scherzando?”
“No, lo scherzo me l’hanno fatto i miei. Due sciroccati, non solo per la scelta dei nomi.”
“Non me ne parlare.”
“Allora mi sono detta: sai che c’è? Io sono Finita, è il mio nome, così come tutto il resto che ho trovato alla nascita, a cominciare da quei due bambini cresciuti solo nel corpo e nelle frustrazioni che ho per genitori, e ho una sola via per vivere felice.”
“E sarebbe?”
“Far diventare figo quello che sono.”
“E come fai?”
“Inizio con il non vergognarmene.”
Eva continuò a parlare con tutti e tre fino a tarda notte e si addormentò, dimenticandosi il proprio funesto intento.
E che siano benedette le parole.
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