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Storia di una ragazza delle favole

Storia di una ragazza delle favole

di
Alessandro Ghebreigziabiher

Dicono di uscire di casa, lo ripetono tutti, è un mantra, monotono come i finali scontati.
Ovviamente, tra essi, spicca il suo, di assolo.

Alessandro Ghebreigziabiher
Mamma, lo farei solo per te, se ci riuscissi.
Solo per te.
Cosa non si farebbe per i propri genitori, eh?
Il fatto è che laddove l’amore reciproco sia l’unica, vera malattia, forse guarire dovrebbe essere più facile.
Ma come la mettiamo in caso qualcuno – la sottoscritta – si ritrovi a scoprire di essere più affezionata al dentro che al di fuori delle cose?
"Amelia", dice spesso papà, "non sai cosa ti perdi."
Babbo, ripeto puntualmente dentro di me.
Non sai cosa ti perdi tu, di me, che ancora non sono riuscita a capire io per prima.
"Non devi aver fretta", sentenzia nonna con la sua proverbiale lentezza nel parlare, giammai nel mangiare. Grassa com’è, abbiamo dovuto comprare una poltrona con gli ammortizzatori di una Ferrari apposta per lei, per quando ci viene a trovare.
Ma ha ragione, a sedici anni si dovrebbe avere pazienza, invece, noi umani facciamo al contrario, col tempo, e con quasi tutte le altre cose.
Magari è così che ci hanno assemblati, leggendo le istruzioni all’inverso.
Allora, avrei dovuto iniziare a interessarmi prima a quel che si cela al di là dei confini della mia immaginazione, così avrei accontentato tutti.
Invece, eccomi qui.
Prigioniera di libri e dei miei occhi assetati.
Di storie, già.
"Sei come una drogata", sostiene mia sorella. A suo avviso, dovrebbero trattarmi come tale e farmi disintossicare.
Ma esiste una comunità per dipendenti da favole non necessariamente a lieto fine?
Un luogo dove si venga tenuti lontani a forza dalle narrazioni più libere?
Un ammasso di reclusi a tempo indeterminato a cui viene insegnato a fare a meno di quei pericolosi quanto attraenti miscugli di carta e inchiostro, il più delle volte resi tali da ingannevoli quarte di copertina?
Credo di sì, ho paura di sì.
Penso che sia proprio il mondo che mi aspetta al di là della porta della mia presunta alienazione.
Eppure le hanno provate tutte, dallo psichiatra al pranoterapeuta passando per l’esorcista e il responso è stato identico per tutti.
Vostra figlia, sorella, nipote e quant’altro è sana come un pesce.
Semplicemente non vuole uscire.
Ti credo, dico io, anche il suddetto animale preferisce rimanere nel mare, no?
Il discorso fila, no?
Ecco, credo sia questo il vero dilemma.
Perché oltrepassare la soglia, se al di qua di essa sei felice?
Poi un giorno ha detto la sua il piccolo di casa.
Parole semplici, poche e forse confuse, ovviamente.
Non ho idea neppure quanto siano state intenzionali, ma è esattamente come i racconti che amo di più.
So bene che non sono stati scritti espressamente per me, ma mi piace credere che sia così.
Era pomeriggio, domenica, tutti a casa, aveva smesso da poco di piovere e finalmente il sole si era degnato di destarsi.
Al primo chiarore sulla finestra in soggiorno, il mio fratellino, che era rimasto in attesa del fatidico evento sin dalle prime ore del mattino, ha implorato i familiari riuniti sul divano sedati dalla tv: "Andiamo a giocare a pallone?"
"Il prato è bagnato", ha tentato invano di dissuaderlo papà.
E lui, fissando proprio me, pur sapendo di rivolgersi alla pallida sorella, volontariamente incatenata alla propria camera da letto, ha replicato: "Ma è solo la palla che si bagna, e mentre si bagna intanto io… ora… gioco."
Mio padre non ha potuto far altro che arrendersi a tale indiscutibile logica.
Così come la sottoscritta, soprattutto per la perfetta armonia insita nelle ultime tre parole.
Io.
Ora.
Gioco.
Lo dico subito, a scanso di equivoci.
Non sono ancora uscita di casa, ma sto per farlo, lo giuro.
Lo so.
Perché qualcosa è cambiato.
Ovvero, un che di nuovo, si è aggiunto alla storia, colmando il vuoto che non poteva rimanere tale.
Non più solo c’era una volta, quindi.
Da oggi e anche domani, caro mondo.
Ci sono e ci sarà, adesso.
Io.



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