Le parole della città
di
Alessandro Ghebreigziabiher
Sono un gabbiano.
E non dovrei esser qui.
Non così lontano dal mare.
Non così vicino alla morte del mondo come l’abbiamo disegnato in un sogno.
Per sbaglio, d’accordo, per ingenuità, non lo nego, ma il ritratto di ciò per cui vale la pena combattere è ancora lì.
Resiste.
Sono un gabbiano e volo.
Non dovrei neppure far questo, se ci pensate.
Perché malgrado ciò che raccontino libri pieni di numeri e risposte che non accettano dubbi, volare non è cosa possibile.
Tante cose non lo sono, nondimeno, molti di noi non lo sanno e le fanno.
Difatti, io sono un gabbiano e so leggere, guardate un po’.
Lo faccio ogni giorno, a cominciare dal mattino, quando mi libro in alto in cerca di cibo ed emozioni complicate.
Tra i rifiuti che abbondano tra strade e palazzi, tra umani e disumani destini.
Tra le parole, già, che ricoprono le facciate delle vostre misteriose esistenze.
Eccole, le parole della città.
Le parole della città sono le insegne dei negozi, che un tempo erano composte per far capire cosa trovare all’interno.
Ora, invece, ti informano di ciò che non avrai mai, ma che non smetterai di cercare.
E’ lo stesso inchiostro con cui parlano, anzi, ammaliano le parole dei cartelloni della pubbli-città, il mondo dove tutto è pubblico e ogni cosa può esser venduta.
Lo so, ho appena pronunciato una parola che non esiste.
Perdonate, ma anche a me piace giocare con le lettere.
Come quelle della città, che invadono muri e spazi vuoti, con scritte incomprensibili a una mente dalla fantasia in estinzione.
A dire il vero, io ho capito che non sono affatto parole, ma forme e colori il cui senso è nel tratto.
Il graffito trova l’abbraccio bramato nel volo che di rimando compie in ogni angolo del tuo corpo, dal momento che l’occhio lo coglie.
Trattasi di invasione benigna, al contrario del resto.
Delle parole della città che guidano il viaggio degli infernali carri di metallo e fretta di arrivare all’ultimo incrocio.
Sono parole che vietano o che, al meglio, avvertono.
Parole che stabiliscono, che ordinano, che si aspettano obbedienza.
E’ il verbo che accompagna il cammino quotidiano di milioni di creature tra le più sopravvalutate dell’universo.
Tuttavia, non ci sono solo parole immobili, là fuori.
Perché io sono un gabbiano e, anche se non potrei farlo, volo.
Leggo le parole e, di conseguenza, le capisco.
Ovvero, il contrario.
Ancora oggi, non riesco a intendere le parole della città che vengono urlate ai nemici su ruote al riparo dei finestrini appannati.
Quelle che vengono inviate a invisibili interlocutori tramite app e microfoni.
Quelle che vengono scambiate di mano in mano con i volantini, che malgrado il nome non volano affatto e al meglio precipitano in terra a soffocare di vane promesse anche il suolo.
A ogni modo, scusate l’interruzione.
Ma io sono solo quel gabbiano.
Sono l’assurdità a cui vi siete ormai abituati.
Che vola, sebbene sia inammissibile.
Che legge e capisce, o forse no.
Le maledette parole della città.
Da cui vorrebbe liberare ali e memoria.
Per ritrovare il perduto mare...
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