Quando mio figlio ha aperto gli occhi
di
Alessandro Ghebreigziabiher
Sì, lo so, è sbagliato.
Una madre non dovrebbe farlo a un’altra madre.
Dovrebbe capire.
Chiedo scusa, le chiedo perdono qui, su questa pagina, sperando che la legga, di più non posso, ma è stato più forte di me.
Quando quella donna ha detto alla figlia, ad alta voce in modo che la sentissero tutte e tutti, che la maestra si era complimentata per i suoi splendidi occhi azzurri, non ci ho visto più, se scusate il gioco di parole.
L’ho mandata a quel paese, edulcorando la versione ufficiale dei fatti, ecco.
Ripeto, sono mortificata, ma… c’è un ma.
Possibile che sono sempre io che devo capire gli altri?
Esiste un momento, come una sorta di giorno dedicato a noi altre, madri di famiglie diversamente normali, in cui è il resto del mondo che deve sforzarsi?
Facciamo che sia questo, allora, nello spazio di questa breve storia, che trova il suo favorevole esito nell’istante in cui sono entrata nello studio del dottore per prendere il mio Mattia e ho trovato lo specialista in piedi sulla scrivania a tentare di fare il giocoliere con le penne biro.
Ma non era il mio bambino ad avere dei problemi?
E che problemi…
Cos’ha il piccolo? La domanda più frequente.
E’ cieco? Quella più scontata.
Ha paura? La meno fondata.
Non ha alcun problema, non è malato, signori miei.
Semplicemente, mio figlio ha gli occhi chiusi. Ci vede perfettamente, forse anche troppo, ma tiene le palpebre abbassate nella maggior parte del tempo.
Ho provato di tutto, con il mio compagno abbiamo tentato in ogni modo di comunicare con lui, e per quanto abbia solo sette anni, Mattia è perspicace, capisce alla grande quel che accade intorno.
Forse è dovuta a questo la particolarità dell’inciampo nella sua seppur giovane età, come se le anime più complesse facessero più rumore, qualora la vita gli faccia lo sgambetto.
Così, è iniziata la processione degli psi, come li chiama mia suocera, la quale sotto sotto non manca mai di insinuare che non ci sia nulla di grave nel nipote, puntando un tutt’altro che metaforico dito sull’educazione materna, dove quest’ultimo aggettivo chiarisce eloquentemente il bersaglio.
Niente da fare, tra quelli che con onestà hanno gettato la spugna, e coloro che si sono approfittati della misteriosa auto cecità per continuare a beccarsi il compenso.
Poi, per caso, a una cena cogli amici, una stramba tipa, new entry nelle vesti dell’ennesima fidanzata di mio fratello, mi parla di questo psicologo particolarmente simpatico.
Chiedo, ma è bravo?
No, risponde lei, ma mi fa ridere e questo fa bene, no?
Malgrado con zero fiducia sul futuro, mi sono recata dal terapeuta col senso dell’humour, gli ho affidato Mattia e mi sono accomodata in sala d’aspetto a fingere di leggere una rivista, come peraltro fa la maggior parte della gente timida come me.
Quindi ho sentito un botto provenire dall’ufficio, come qualcosa di vetro che si rompa.
Ho spalancato la porta e ho visto i cocci del portapenne in terra a far da contorno alla scena di cui sopra.
Mi sono bastati pochi secondi per capire, per sorridere di nuovo e capire.
Mio figlio ha gli occhi chiusi perché là dentro dimostra il coraggio, che la maggior parte di noi non ha, di affrontare il buio e colorarlo di meravigliosa leggerezza.
Il dottore matto non sarà un genio della psicanalisi, ma questo l’ha capito subito.
Così, mio figlio ha aperto gli occhi.
E, finalmente, li ho aperti anch’io.
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