Comunità di recupero
di
Alessandro Ghebreigziabiher
All’inizio è stato difficile.
Lo è per tutti.
Il primo giorno in comunità di recupero non lo scorderò mai.
D’altro canto, potrei forse dimenticare tutti gli altri?
A ogni modo, i miei nuovi compagni erano lì, nel cortile che tutti ospita, dove c’è spazio per incontrarsi, se davvero lo si vuole.
“Io mi chiamo…” esordii cercando di presentarmi, ma fui immediatamente bloccato dalla mia interlocutrice.
Silenzio, questo è ciò che disse.
Questo è quel che chiese.
Difficile, difficile davvero.
Ardua impresa, a dirla tutta, perché ero lì per chiedere aiuto.
Per ottenerlo, a esser precisi.
Ciò malgrado, accusai il respingimento e mi corazzai di orgoglio ferito fino al tramonto.
Il giorno seguente ero di nuovo nella piazza, il luogo della socializzazione e della condivisione.
Mi appropinquai al primo tizio a portata di dialogo ed esclamai: “Ciao, io vorrei…”
Identica risposta.
Silenzio, questa fu difatti la sua replica.
Questa la domanda.
Come dicevo poc’anzi, non so se rendo l’idea, è incredibilmente difficile cambiare.
Cercare qualcosa e accettare di non trovarla.
A meno di non usare le giuste parole.
Letteralmente.
Nondimeno, trascorsi l’intera giornata nella totale solitudine, cedendo alla rabbia ogni centimetro di più della mia pancia, nel trascorrere il tempo in mezzo a quella gente così incapace di essermi utile, alla bisogna.
Alla disperata bisogna, per la precisione.
Il terzo giorno ero deciso a scoprire la chiave della virtuosa connessione.
La notte precedente non avevo chiuso occhio, scervellandomi nel capire dove avessi sbagliato.
Perché sedata la prevedibile frustrazione, sapevo che l’ostacolo in cui mi ero imbattuto era il motivo della mia presenza in quel luogo.
E quel motivo ero io.
Misi piede tra le persone che come me avevano percorso quei primi passi, che ora godevano di una libertà e, soprattutto, di una serenità per la quale ero stato disposto ad affrontare i miei demoni.
Stavolta esitai, ancora e ancora, ma alla fine ritornai al punto di partenza.
“Scusate”, mormorai seppur con il massimo della gentilezza a una coppia di giovani, “io sono…”
Idem come sopra.
Silenzio, questo è ciò che risposero in coro.
Questo è quel che mi suggerirono come soluzione.
Alla rabbia si sostituì smarrimento, e fu difficile, immensamente difficile, perché la confusione può vincerti del tutto, quanto può renderti vulnerabile alla verità.
Vagai fino al calar della notte, solo, isolato, lontano da tutto e tutti.
Ma anche da me, per mia fortuna.
Altri giorni si susseguirono e la danza proseguì monotona.
Io so… silenzio.
Ma io… silenzio.
Io credo che… silenzio.
E così via.
È stato difficile, e lo è ancor di più oggi che ho capito dove sbagliavo, di cosa si nutrisse la più terribile e moderna droga del mondo.
In breve, l’autoreferenzialità.
Non più io, ma silenzio, questo è stato l’inizio del nuovo racconto.
Ascoltare, il resto della storia.
Tu e voi tutti, la morale.
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